Stato Vegetativo

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Stato vegetativo: rimanere saldamente sui binari della scienza

Articolo del

Prof. Canavero pubblicato da Torino Medica

La risposta di

Zanotti & Verlicchi

 

 

 

 

 

 

 

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STATO VEGETATIVO

 

Cosa è uno stato vegetativo?

Innanzi tutto occorre fare chiarezza. Lo stato vegetativo è stato definito in vari modi, uguagliandolo al coma, ma con il coma non può assolutamente essere confuso: si tratta di uno stato clinico conseguente al coma o che, nella fase terminale della vita, lo può precedere.

In sintesi, la definizione internazionalmente accettata dello stato vegetativo indica una condizione clinica in cui il paziente è sveglio (cioè ha gli occhi aperti, mentre nel coma gli occhi sono sempre chiusi), ma non è cosciente (non è consapevole di sé e di sé rispetto all’ambiente: in pratica non comunica e non risponde all’ambiente circostante).

Wikipedia ne dà una definizione sostanzialmente corretta: “[…] un paziente in stato vegetativo ha perso le funzioni neurologiche cognitive e la consapevolezza dell’ambiente intorno a sé, ma mantiene quelle non-cognitive e il ciclo sonno-veglia; può avere movimenti spontanei e apre gli occhi se stimolato, ma non parla e non obbedisce ai comandi. I pazienti in stato vegetativo possono apparire in qualche modo normali: di tanto in tanto possono fare smorfie, ridere o piangere”.

Tutto questo senza però valenza emotiva e volitiva. Un semplice e puro automatismo riflesso.

 

Ma come si giunge in stato vegetativo?

Fino alla prima metà del secolo scorso lo stato vegetativo era praticamente inesistente. Chi rimaneva vittima di un grave accidente encefalico (trauma, emorragia, ecc.) spesso moriva. Gli avanzamento tecnologici, soprattutto nelle tecniche rianimatorie e neurochirurgiche, hanno portato ad un nuova entità umana: lo stato vegetativo: definito anche come condizione clinica “sospesa”, in cui il processo mortale viene fermato dai trattamenti di sostegno vitale (rianimatori), che tuttavia non sono sufficienti per ridare il contenuto di coscienza all’individuo.

Per meglio comprendere pensiamo ad una facile similitudine. La nostra attività di relazione, vale a dire il nostro modo di interagire con il mondo, è possibile perché dentro di noi si accendono due lampadine (la vigilanza, cioè l’essere svegli, ed il contenuto di coscienza, costituito dalle funzioni mentali), contemporaneamente. Quando uno è in stato di coma, tutte e due le lampadine sono spente (l’individuo non è sveglio e manca il contenuto di coscienza). Quando un individuo è in stato vegetativo si accende solo una lampadina (l’individuo può essere sveglio), mentre l’altra permane spenta (manca il contenuto di coscienza). In sostanza, si accende la lampadina che “sveglia”, ma permane spenta quella che da svegli fa comparire anche il contenuto di coscienza.

 

Quando si può dire che uno è in stato vegetativo senza ragionevole possibilità di recupero del contenuto di coscienza?

Tutta la questione sta in mano al tempo. In fondo il tempo è galantuomo, è lui che scandisce la varie tappe dell’evoluzione clinica. Quando uno è in coma ha sostanzialmente due vie: o muore o si avvia, in tempi più o meno lunghi, verso il risveglio, prima, e successivamente, è auspicabile, verso la ripresa delle sue capacità cognitive che gli permettono di interagire con il mondo. Solitamente esiste un tempo massimo per il coma: vale a dire che qualsiasi paziente in coma al più si veglia verso la terza-quarta settimana. Assodato quindi che solitamente, anche chi non si sveglia in tempi brevi, verso il primo mese, apre comunque gli occhi. Questo evento, che avviene in modo automatico, ha ingenerato non poche favole mediche: i risvegli dettati da stimoli vocali o musicali o tattili. Nella fase del coma i più sostengono che bastano solo le normali attività di accudimento del paziente in quanto, in questo tipo di pazienti, per definizione, gli stimoli, non possono raggiungere il livello di coscienza. Vale a dire che qualsiasi stimolo, tattile, acustico, visivo non può raggiungere un tale livello di integrazione da renderlo codificabile dall’individuo. Quindi, l’iperstimolazione risulterebbe assolutamente inutile. Il paziente in coma si sveglia secondo i suoi ritmi, non certo secondo i nostri desideri.

Dopo circa 4 settimane, dunque, il soggetto è sveglio e solitamente respira da solo. Ma non è cosciente e non compie nessun azione finalistica. Anche in questo caso ha sostanzialmente due possibilità. 1. Alcuni pazienti ad un tempo variabile incomincia ad interagire con l’ambiente fino ad un livello di coinvolgimento che può essere compreso da tutti, vale a dire esegue ordini e compie gesti finalistici. Ovviamente, può residuare un grado di disabilità motoria e cognitiva più o meno grave. 2. Altri pazienti permangono solo svegli.

L’una o l’altra possibilità sono rivelate solo dal tempo.

Se il paziente è entrato in coma per un insulto metabolico, pensiamo ad un infarto cardiaco che per parecchi minuti non ha permesso l’afflusso di sangue all’encefalo, e se non ha riacquistato una minima interazione con l’ambiente entro i primi tre mesi, bene difficilmente lo raggiungerà in un tempo maggiore.

Più prudente è la prognosi se il coma iniziale è dovuto, ad esempio, ad un trauma cranico. In questo caso si attende la permanenza dello stato vegetativo per almeno un anno prima di ipotizzare la sostanziale impossibilità ad un recupero cognitivo, seppur minimo.

Quindi, come si vede, più che l’azione umana, è il tempo che scandisce tre tappe fondamentali: un mese (risveglio, comunque), tre mesi o 12 mesi per ritenere altamente improbabile un recupero del contenuto di coscienza se in quel lasso di tempo permane uno stato vegetativo.

 

Ma allora perché spesso si sente di casi che recuperano il contenuto di coscienza a distanza di molti anni?

Si diceva che il tempo è galantuomo, infatti non mente. Le tappe evolutive dal coma allo stato vegetativo sono quelle. Ciò che cambia, e non di poco, è la difficoltà di diagnosticare i cosiddetti casi “minimamente responsivi”, cioè quelli che hanno un contenuto di coscienza talmente basso che è difficile per l’esaminatore percepirlo. Secondo alcuni studi internazionali (condotti tra il 1990 ed il 1995) le diagnosi di stato vegetativo erano errate dal 18% al 43%: di fatto si trattava di casi già minimamente responsivi entro i termini canonici di 3 mesi-1 anno, ma che venivano “scoperti” solo a distanza di anni, quando una corretta ed esperta valutazione clinica li inquadra nel modo giusto. I recuperi a distanza degli stati vegetativi di fatto sono solo la dimostrazione che la capacità diagnostica è ancora grandemente perfettibile e sottolineano le difficoltà di valutazione da parte di personale sanitario non abituato a trattare questa condizione.

 

Quanti sono gli stati vegetativi in Italia?

Dati certi non ve ne sono. La Commissione tecnico-scientifica ministeriale del 2005 ritiene che”I casi di pazienti in condizioni di bassa responsività esistenti in Italia sono stimati in circa 1.500 e tale numero è destinato a crescere.” Massimo Vallasciani, dell’istituto di Riabilitazione S. Stefano di Porto Potenza Picena ritiene che non sono sicuramente meno di mille.

Di questi, almeno una quarantina sono nel Friuli Venezia-Giulia. Stando ad uno studio condotto qualche anno fa dalla Dott.ssa Voltazza dell’Istituto di Riabilitazione “Gervasutta” di Udine. Tale studio è interessante anche per un altro motivo: cerca di quantizzare il costo di questi soggetti. La stima delle spese sostenute ha evidenziato un costo in fase acuta di circa 516 euro giornalieri, fino circa 155.00 euro quando il ricovero dura 1 anno. Nella fase successiva il costo si riduce alle spese di assistenza e di albergaggio, intorno ai 186 euro giornalieri, per complessivi 67.100 euro all’anno. Tale importo è sostanzialmente lo stesso sia in ambiente ospedaliero sia domiciliare.

Tali costi sono paragonabili a quelli riportati in altre realtà, ad esempio quella francese o quella americana.

Tralasciamo, per decenza, gli incalcolabili costi umani, sia per chi è in stato vegetativo, ma soprattutto per chi, famigliare, lo accudisce.

 

È giusto lasciare morire chi si trova in stato vegetativo che non abbia ragionevolmente nessuna possibilità di recupero?

Va premesso che ognuno deve essere messo nelle condizioni di esprimere, liberamente, il proprio desiderio in merito. Purtroppo in Italia non è ancora diffuso, né ha validità di legge, il cosiddetto “testamento biologico” o meglio “le direttive anticipate”. La sovranità dell’individuo su scelte di questo tipo dovrebbe essere sempre rispettata.

Quanto siano poco diffuse le direttive anticipate, lo testimonia anche uno studio del Dott. Stefano Bertolissi, medico di Medicina Generale di Udine, che, fra l’altro sottolinea come ci sia ancora molta strada da compiere affinché la classe medica accetti le volontà espresse dal paziente in fin di vita sia le difficoltà insite nell’affrontare questi argomenti con il paziente.

Il Dott. Luigi Conte (Presidente dell’Ordine dei Medici-Chirurghi di Udine) ha recentemente sostenuto che “l’autodeterminazione è un dovere etico della moderna professione medica, è un diritto del moderno cittadino che chiede di essere soggetto di scelte consapevoli”.

Ha suscitato molto scalpore il recente caso di Eluana Englaro. Il fatto che le si conceda di porre fine ad una esistenza-non esistenza dovrebbe essere un fatto privato. Come privata doveva essere la scelta di Terri Schiavo, qualche anno fa in America, che, trovandosi in analoga situazione, veniva portata al raggiungimento dello stato di morte. Allora come adesso, invece, molti, di opposti fronti, si sono sentiti in animo di ergersi a crociati per difendere quella o quell’altra posizione. Uno fra i tanti, il giornalista Ferrara che ai tempi della Schiavo parlava, a sproposito di atto nazista e che ora invita a raccogliere bottiglie d’acqua. Questa è demagogia e disinformazione.

Ma quel che è peggio è essere paladini di qualche cosa che non ha nulla a che vedere né con la realtà scientifica né con la prassi quotidiana.

Recenti studi, sia italiani sia esteri, hanno fatto emergere che la decisione di porre fine ad una vita in uno stato di malattia senza possibilità di recupero viene intrapresa, come atto medico, nel 40% dei casi venuti a morte nei reparti di degenza ordinaria e nel 70% dei casi nei reparti di terapia intensiva. Il Prof. Veronesi ha parlato più volte di “eutanasia clandestina”.

Tale affermazione pare suffragata anche analizzando i risultati di uno studio promosso dal Dr. Bruno Zanotti  e dalla Dott.ssa Angela Verlicchi che ha coinvolto 1.400 medici. La ricerca metteva in rilievo che già agli inizi del 2000, al di là dei dettami giuridici e deontologici, l’eutanasia passiva in caso di stato vegetativo permanente era ritenuta pratica corrente dal 20% degli intervistati. Se a questo dato si aggiungeva quanto sostenuto dai più, 61%, e cioè che l’astensione dal trattamento medico in caso di stato vegetativo permanente era sì pratica rara, ma pur sempre presente, si raggiungeva una percentuale estremamente elevata che sembra indicare che, al di là delle risposte dettate da un atteggiamento di facciata, la realtà in corsia sia diversa.

Come sempre, il mondo reale, anticipa di gran lunga i dibattiti legislativi e, ad occhio attento, fa sembrare pagliacciate molte esternazioni di chi poco o nulla sa sulla reale portata dello stato vegetativo.

Quando si fanno queste scelte bisognerebbe tutti abbassare i toni, dare spazio all’autodeterminazione ed essere garanti sia per l’assistenza ad oltranza a chi abbia espresso tale volontà sia permettere una fine dignitosa a chi, invece, legittimamente vuole porre fine ad uno stato vegetativo che per lui, in vita, è inaccettabile.

Lo stato vegetativo ha bisogno di comprensione e tolleranza e non di crociate.

 

Ma la medicina è assolutamente impotente di fronte a questi stati vegetativi?

Torniamo al fattore tempo. L’unica vera medicina è il tempo, ma non va disgiunto da una costante ed attenta attività clinica. Gli stati vegetativi sono esseri assai delicati che vanno monitorati con un attento nursing ed una costante attività medica, diagnostica e curativa.

Ma, alle volte, si può dare una mano per accelerare un possibile recupero con alcuni farmaci o impiantando uno stimolatore elettrico in alcune aree cerebrali che sono deputate a far accendere, come accennato prima, la seconda lampadina, quella più importante, quella che illumina la nostra vita, quella che ci fa vedere con gli occhi, interagire sia con noi stessi sia con il mondo esterno.

Ma nonostante queste potenzialità, a tutt’oggi, lo stato vegetativo è un dramma collettivo in quanto chi ne è affetto è “condannato a non morire” mentre i famigliari sono “condannati a non vivere”.

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